Negli ampi saloni del Castello Ducale di Corigliano Calabro (Cs) adibiti a museo di arte contemporanea si svolgerà dal 14/11/2015 al 05/12/2015 la Personale di Francesca Panico dal titolo “ Napoli è pietra e sballo”.
La mostra, curata dal critico Gianfranco Labrosciano, presenterà una selezione di lavori particolarmente indicati a rappresentare, co il linguaggio segnico e informale dell’artista, le atmosfere, l’humus e l’ambiente del paesaggio “Napoletano” , sia urbano che naturale particolare e suggestiva la presentazione del critico, secondo il quale: “Napoli é pietra e sballo. Essenziale e definitiva come due termini precisi e polivalenti.
E’ angelo bestiale e celestiale che nell’orrore e nella sofferenza si é coagulato per arrivare a questa dimensione di pietrificazione, che non é di morte, ma di vita, nel senso che riconduce a un dolore che prende sangue dal presente, che sale dal presente e si traduce in un capovolgimento, una resistenza, una reazione di non accettazione della condizione imposta dalla dimensione del mondo.
E’ una ferita apertasi nell’impossibilità di appiattirsi nella dimensione delle cose. Questo é il destino di Napoli, di una sofferenza inalienabile.
Nessuna consolazione, nessuno strumento, nessuna salvezza da questa tragedia, a meno che non si voglia ricorrere a una proiezione, a qualcosa che sta fuori, che esca fuori dalla presenza del suo soffrire e dalla sua carne.
Questo é il destino di Napoli, che é piombata, caduta in questo mondo per una prova estrema di salvezza, di orgoglio e di gloria, e di morte.
E’ da questo grosso attrito e da questa sofferenza che nasce l’arte napoletana, che é drammatica, tragica come tutta la sua storia. E la sua letteratura, i grandi romanzi, le canzoni, altro non sono che stigmate della sofferenza del popolo.
Napoli é profonda come la pietra, ineludibile e inalterabile. Questo é il segno della sua universalità.
E’ sballo per il fatto di porsi sempre come resistenza, perché al di fuori di questo non può vivere. In questo senso é coagulazione, pietrificazione e sintesi, ed é anche sballo come conseguenza della reazione totale, fino all’assurdo.
Rimuove anche l’inferno, continuamente.
Basta stare sulla strada, nella sua grande festa, nel suo stordimento, nella sua distrazione, nel suo godimento sfrenato senza reticenze, che si manifesta in ogni modo, per capire che è rimossa non solo la morte, ma anche l’inferno e ogni suo derivato.
Come gli estremi labirinti, le periferie della coscienza, Napoli si percepisce solamente. Appartiene a quel gruppo di luoghi ammantati di mistero in cui le verità occulte sopravanzano quelle palesi, e dove la soluzione di ogni incognita apre varchi di conoscenza per enigmi ancora più inestricabili.
E’ un luogo di emozioni convulse che producono un accatastamento di azioni occasionali e genera un vissuto automatico che rivelandosi si autoproclama come strabiliante, grottesco e amorfo ma necessario e ineliminabile per la sopravvivenza del mondo.
In ogni caso é come la vita. Corrisponde alla forma con cui ce la rappresentiamo.”
(Da: Tropico del caos, 1996)
Sono trascorsi molti anni da quando ho scritto questo romanzo, che non ho pubblicato per una ragione: cercavo un artista napoletano capace di rappresentarlo con tutta la forza della verità che a mio giudizio avevo manifestato.
Ed ecco che all’improvviso, e proprio a Napoli, mi capita di incontrare Francesca Panico, che Napoli la vive e la “abita” con la sua arte come fosse un vestito, una seconda pelle che respira e trasuda l’intima essenza di cui la città è intrisa, con tutto il suo folklore e il suo splendore, la sua grandezza, la sua terribilità e la sua dolcezza, a cominciare dalla materia pittorica arroventata, arrovellata, solcata, attraversata da quel dolce furore vitale, esuberante, eccessivo, che mi è parso di scorgere solo a Napoli e che duplica in festa e in scialo, nell’orgia della baldoria e dell’allegria la tragica e spesso dolorosa condizione della vita.
L’arte sua, allora, mi pare lo specchio, il riflesso di chi abita una sorta di permanente improvvisazione strategica del fare votata spontaneamente alla resistenza in vista del riconoscimento e della sopravvivenza in una doppia condizione, energetica e distruttiva, di affaticamento e alleggerimento, e mostra il suo vestito con tutta l’evidenza della sua inafferrabile e a volte anche indecifrabile ambiguità, l’abito di un essere (l’artista) del mondo gettato, sbaragliato in questo duro mondo di inamovibili relitti d’inquietudine che agiscono e irrompono nell’ irrealtà dell’arte per oggettivare, sia pure in un mondo di forme fluide e inaccessibili, sensazioni, figure, melodie e persino ritmi della realtà altrimenti irriconoscibili. Perché ci sono, questi ritmi e queste sensazioni, queste forme incerte, stravolte e disorganizzate, come parti di una realtà inamovibile, e hanno una loro storia, a volte fuorviante, a volte mistificante, a volte indipendente e autonoma, ma sempre tenuta insieme da un sentire organico collettivo che incessantemente, segretamente, misteriosamente elabora, senza che ce ne accorgiamo, una storia degli uomini, dei popoli e delle cose.
La specificità dell’arte di Francesca, allora, non è quella, così mi pare, di inventare un soggetto o trovare una configurazione, ma lo sforzo di dare forma a concetti percettivi di un contenuto particolare : l’ambito di una prospettiva lunga, fondatamente astratta, che assume l’identità e la condizione come forme stesse dell’operare estetico,l’immagine dell’abitare una maschera o un calco in gesso per rimanere, alla fine, privi di una qualunque forma con l’intento rappresentarle tutte.