Il Centro Teatro Spazio, dove fino a domenica sarà in scena “La Cella Zero“, è un teatro piccolo e sembra quasi un caso, perché la storia di cui si narra è ambientata proprio in uno spazio limitato, quello di una cella penitenziaria del carcere di Poggioreale. Io abito lì vicino e, fin da quando ero piccola, passavo davanti a questo enorme edificio con mura altissime e una scritta all’ingresso principale che (a quei tempi) non capivo cosa volesse dire: “Casa Circondariale”.
Tutto quello che sapevo sull’interno di un carcere l’ho sempre appreso da tv, cinema o documentari: non sono mai entrata per vedere in che condizioni vivessero quelle persone giudicate colpevoli di aver trasgredito la legge. Ebbene, domenica scorsa io sono stata in quel carcere, ho vissuto per un’ora e poco più nella cella a cui è stato dato il numero zero perché prima non ne aveva uno. Un numero che forse non vale nulla, ma che spesso può significare molto, anche troppo.
Per Pietro Ioia, ad esempio, quello ZERO è stato tanto: torture, angherie, freddo dell’anima e nell’anima, paura, dolore, sfinimento e chissà quant’altro. Perché nonostante la perizia di Antonio Mocciola (che ha ‘ascoltato‘ i racconti di Ioia e li ha tradotti per il teatro), la genialità di Vincenzo Borrelli (che dirige uno spettacolo “non semplice”) e la bravura di un team attoriale non da poco (Ivan Boragine, Marina Billwiller, Diego Sommaripa, Ivan Improta, Simone Somma, Antonio Tatarella, Cristina Ammendola e lo stesso Ioia), noi “brave persone” non potremo mai immaginare ciò che accadeva in quel tugurio marchiato con un numero “senza valore”.
Oggi possiamo provare a capirlo andando a vedere questo spettacolo teatrale che, secondo il mio umile parere, non ha precedenti.
Potrei disquisire per ore, rispolverando il nozionismo di quel 30 in Storia del Teatro e dello Spettacolo che il Prof. Vicentini ebbe la bontà di scrivere sul mio libretto universitario nel mesozoico, oppure sfilando una serie abnorme di paroloni, che per capirne il senso o siete figli diretti di Treccani o ne avete ingoiato i tomi che ha editato. Potrei fare tutto questo e anche i tripli salti mortali su questa tastiera, ma alla fine cosa riuscirei a trasmettervi? Cosa vi spingerebbe a pensare “Oh cavolo! Questo sì che è uno spettacolo che vorrei andare a vedere!“?
No, per mia scelta, proverò a raccontarvi nella maniera più semplice possibile quello che ho provato quando sono ‘entrata‘ in quella Cella Zero.
Arrivo in ritardo e becco libero quello che generalmente è il posto peggiore per seguire uno spettacolo: in prima fila, al centro, dove a meno di un metro c’è il palcoscenico. Penso “pazienza, me lo merito” e lo penso parecchie volte prima che inizi la rappresentazione. Poi il buio e smetto di pensare.
Inizialmente la macchina del fumo offusca la presenza degli attori, ma durerà poco. Da quel momento mi sento come in trance (e la risposta è no: il glicole misto all’acqua demineralizzata non induce allucinazioni e nemmeno è mio uso assumere sostanze stupefacenti): Pietro Ioia, la moglie Pina, i compagni di cella, la cattiva guardia penitenziaria, la voce fuori campo… tutto riporta a quello spazio che contiene cose accadute davvero, ma che sembra stiano succedendo in quel momento per la prima volta.
Pina e Pietro sono giovani: lui è un bullo di strada convinto di essere intoccabile, lei lo ama com’è e come forse vorrebbe che fosse. Viene arrestato e anche lì per lui sembra che sia una cosa da nulla: Pina era meglio che non mi secciavi con le tue manfrine, mò non agitarti, tanto uscirò presto e tornerò a fare quello che è il mio “mestiere”.
Ma il presto si trasforma in una lunghissima e straziante attesa per Pina ed in un inferno per lo stesso Pietro, perché il carcere non è una ‘vacanza’ che durerà poco.
In galera c’è un mondo a parte, con regole non scritte a cui non puoi disubbidire e tutto questo Pietro lo impara piano piano, a partire dal comportamento dei compagni di cella. Però il peggio deve ancora arrivare.
Anche in carcere c’è chi comanda e non sempre è il boss descritto nei film: stavolta chi ha il coltello dalla parte del manico è quello che tutti non immagineremmo mai, una guardia penitenziaria che di buono ha ben poco.
Basta un’inezia e finisci nella cella senza numero, dove vieni punito per il solo fatto che hai varcato l’ingresso della Casa Circondariale, dove sei nudo e i cani ti strappano la carne a morsi.
Mentre guardo il palco avverto qualcosa alle mie spalle e l’istinto mi dice che quello dietro è più interessante di quello che ho davanti agli occhi. Mi giro e di colpo Pina è lì, con qualche anno in più e sempre ignara di quello che sta accadendo realmente a Pietro. L’attesa le ha strappato via il sorriso amorevole; è consapevole che non è mai stata l’unica femmina della vita di suo marito, ma sa di essere sempre e comunque la sua unica Donna. Il dolore di Pina lo sento addosso, come l’impotenza da cui viene sopraffatta nell’attesa che il suo uomo esca da lì. Avverto lo sdegno quando la guardia ci prova e il sollievo di essere “salvata” da un’altra donna molto simile a lei.
Quella donna non so se sia davvero esistita, l’amante dell’aguzzino di Pietro, però mi cattura il suo ruolo: allora anche un orrido approfittatore ha una vita? Non ci avevo pensato fino a quel momento. Tradisce sua moglie con la sorella di un detenuto (Fusco) ed hanno anche un figlio. Ovviamente, con la vigliaccheria che lo contraddistingue, non ha le palle per lasciare la moglie e nemmeno per assumersi le responsabilità di padre (e meno male, mi viene da pensare, perché sai che bell’esempio di padre sarebbe!). L’unica cosa che sa fare la guardia senza nome è sfogare le sue frustrazioni su chi non può difendersi.
Ed in cosa sarebbe poi diverso dai tanti criminali che affollano le carceri o che girano ancora a piede libero?
Perché è facile fare i leoni quando le prede te le servono su un piatto da cui non possono fuggire, è da grandi uomini usare la violenza per annientare il prossimo… anche se quel prossimo è un detenuto che ha commesso numerosi errori.
In questo spettacolo il confine tra “buoni” e “cattivi” è molto sottile, spesso inesistente.
Credo che il momento più intenso di tutta la rappresentazione per me sia stato quando Ivan Boragine-Pietro, in un discorso al Ministro della Giustizia, mi ha fissata negli occhi (maledetto posto in prima fila!) e ancora una volta tutto è svanito intorno, perfino il tizio che sedeva al mio fianco e che a lungo ed inutilmente aveva provato a distrarmi facendo dondolare la fila di poltrone con il suo piede affetto da ipotetico Parkinson.
Ora vi confesso che Boragine da vicino è davvero un gran bel pezzo di ragazzo, ma in quel momento non era il suo sguardo che stava quasi per farmi piangere, e nemmeno il discorso in cui ripete a gran voce che Pietro Ioia è un uomo. In quei minuti interminabili mi sono sentita sopraffatta da tutto: le vicende, i personaggi, lo spazio, il viso sfigurato di un uomo torturato fino a pensare anche al suicidio.
Quando parlava al Ministro io mi sono sentita colpevole, perché alla fine siamo un po’ tutti dei ministri. Potremmo fare ed invece restiamo a guardare, lasciamo che il silenzio cali su storie come questa… battendo forte le mani quando lo spettacolo è finito ed uscendo pensando già “Accidenti piove ancora. Chissà se mi avranno fatto la multa all’auto parcheggiata in divieto di sosta. Ah, finalmente posso fumare anche io una dannata sigaretta!“.
Un momento, non è davvero finita!
Se andrete a vedere “La Cella Zero” avrete la possibilità di entrare dietro le quinte, di conoscere gli interpreti dello spettacolo (che per me sono stati bravissimi, dal primo all’ultimo), di incontrare o’ màst Vincenzo Borrelli e di vedere vis-à-vis il vero Pietro Ioia, che per tutto il tempo avevate davanti agli occhi nel ruolo della guardia penitenziaria. E se vi va bene, forse beccate anche quel geniaccio di Mocciola.
Ester Veneruso