“C’era una volta..” è così che iniziano tutte le favole e questa non è da meno. C’era una volta a Villa Gobernador Galvez, un piccolo sobborgo di Rosario, nella lontana Argentina, un bambino che amava vivere. Piccolo ma sveglio, modesto ma con il cuore grande. Ezequiel Ivan, è questo il suo nome, ma per gli amici “Pocholo”, come quel cane che tanto gli somiglia. Scaltro e attento, con la voglia di godersi ogni istante della vita e una valigia piena di sogni. Un pallone tra i piedi, pronto a correre sui campi in terra battuta, si accontentava di poco per sorridere a quella vita che lo caricava ogni giorno di responsabilità. Un papà lontano da casa e una mamma super indaffarata per portare avanti le sue tre piccole pesti. Cresceva in fretta, tra un abbraccio e un rimprovero dei suoi fratelli maggiori, un maschio e un femmina. Non c’era tempo per costruire castelli in aria, sapeva che sarebbero potuti crollare da un momento all’altro. La sua vita non sarebbe mai potuta dipendere dal calcio, o almeno non erano queste le aspettative, eppure quel pallone non smetteva mai di calciarlo. Un talento, il suo, che sarebbe potuto rimanere lì, ben nascosto tra una via e l’altra della città. Poi la voglia di provarci, di dare soddisfazioni a chi tanto aveva creduto in lui, era il momento di aprire quella valigia piena di sogni e riempirla per una nuova avventura. L’Italia lo aspettava a braccia aperte, ma la sua fu solo una toccata e fuga. Fermato da una serie di problemi burocratici Ezequiel, a soli sedici anni, fu costretto a tornare a casa. Meglio accantonare per un attimo i sogni. Lo sa bene lui, non si vive di fantasia, in questa vita c’è bisogno di costruirsi qualcosa di concreto. Meglio dimenticare l’odore dell’erba bagnata e quegli scatti che lo facevano sentire potente, un nuovo Ezequiel si preparava ad aiutare il fratello maggiore a fare l’elettricista. La voglia di imparare e di rendersi utile gli spianavano la strada, seppur a sedici anni ti aspetti di meglio dalla vita. Poi un pizzico di fortuna ed ecco di nuovo riaperta la strada per il successo nel mondo del calcio. Una stagione, quella 2003-2004, in cui Ezequiel, diventato ormai un piccolo uomo, sa come mettersi in mostra e sfoggiare il suo talento. Velocità, grinta, dribling e la voglia di far bene. Questa è la volta buona per andar via dall’Argentina, la sua adorata terra che l’ha visto crescere passo dopo passo. E’ il momento del Genoa, così Ezequiel torna in Italia con un contratto tra le mani e una nuova vita da costruire. Solo un anno, per lo più insoddisfacente ed eccolo arrivare ai piedi del Vesuvio. Napoli una città che non lascia facilmente indifferenti.
Una squadra appena risalita nella massima serie, dopo il fallimento e gli anni di duro lavoro. Il Napoli è, da sempre, la gioia più grande di un popolo che non ha vita facile. C’è sempre stato un particolare feeling tra Napoli e gli Argentini e ora è giunto il momento di accoglierne un altro. Genio e sregolatezza, fame di gol e il sorriso sempre stampato sul volto. Reja nemmeno lo riconobbe il primo giorno di ritiro azzurro, ma Marino sapeva che sarebbe stata la piazza ideale per un giovane affamato di gloria e con la voglia di migliorare un po’ per volta. Un fisico asciutto, appena un metro e settantatre centimetri e ancora un po’ di pelle “pulita” pronta ad essere tatuata. Timido e di poche parole, fa fatica a parlare l’italiano, ma non tanta a farsi amare da tutti. Concentrato in campo e spensierato nelle ore piccole. Mentre Napoli lo incorona re il presidente non tanto gradisce le sue “notti brave”. Ezequiel, ormai per tutti il “Pocho”, sa farsi perdonare quando abbassa la testa e manda in panico intere difese. Sono
passati cinque anni, quella maglia numero 7 è passata nelle mani del Matador Cavani, che arriva alla corte di Mazzarri, nella nuova era del Napoli. Lui si accontenta della 22. La stima per Diego e la voglia di essere ricordato per quello che è lo tengono lontano da quella numero 10 che infiammava il San Paolo. La maglia diversa, ma l’amore è quasi lo stesso. Un idolo per grandi e piccini che non riescono a farne a meno. “Olè Olè Olè Olè Pocho Pocho” è questo il coro trasformato dalle Curve dello stadio, che riecheggia per le vie di Fuorigrotta. Un amore che però non gli rende la vita semplice. Costretto ad uscire poco di casa, a privarsi anche di un pomeriggio di shopping o di qualche ora al cinema con il suo piccolo Thomas, Lavezzi chiede venia. Solo un po’ di tranquillità, è questo che chiede ancora una volta. La sensazione di uscire dal campo accompagnato da una standing ovation, di essere l’eroe di una città che non viveva momenti così da troppo tempo, sono piacevoli ma non quanto
quella di doversi nascondere nel bagagliaio di una macchina per evitare di incontrare fans e risultare poco simpatico, in una giornata magari un po’ storta. Per il resto il principe azzurro continua a scrivere pagine di storia. E’ cresciuto tanto in questi ultimi anni. Finalmente è maturo, in campo e fuori. La testa è tornata sulle spalle, non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche quando è solo a pochi metri dalla porta. Non bastavano le distese di campo conquistate con la palla tra i piedi, ora un’intera città è in delirio per il Pocho goleador. Sei reti in cinque partite, tra cui una doppietta agli inglesi del Chelsea. Anche dagli undici metri, con la palla ferma posizionata sul dischetto, Lavezzi non perdona. Fiorentina, Parma, Inter, Cagliari, sono solo l’antipasto per quel piatto freddo che andrà servito al ritorno degli ottavi di Champions allo Stamford Bridge. Lavezzi ci crede e con lui un’intera città. Se si è tornati a sognare lo si deve anche a lui. Il lieto fine è ancora lontano dall’essere scritto, ma nel frattempo questo principe azzurro continua ad essere il protagonista indiscusso di una favola che resterà per sempre tra i ricordi migliori del popolo partenopeo.