“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”, scriveva Anthelme Brillat-Savarin. Il modo di mangiare e le tradizioni rivelano molto sulla personalità di chi ci circonda; la qualità di un prodotto è, sicuramente, proporzionale alla cultura tradizionale e all’appartenenza. E, si sa, i napoletani in termini di tradizione sono imbattibili!
Oggi, non c’è ristorante che non esibisca articoli di qualità che rappresentano una delle carte vincenti della ristorazione. La “rilancia del territorio” è la protagonista di piccole e grandi imprese che puntano tutto sulle proprietà dei prodotti.
Ma come mai cresce sempre di più il sentimento di riscoperta delle tradizioni? Pare che la risposta sia nelle mani delle globalizzazione che attraverso l’omologazione, sempre più tangibile, ha rischiato di uniformare anche la cucina e le sue tradizioni. Da qui la riproposta dei vecchi sapori, delle verdure a km 0 e della farina integrale che una volta appartenevano ai poveri.
Il rapporto tra cucina di territorio e cucina internazionale è il perno intorno cui si svolge la cultura alimentare contemporanea. Una relazione tra modello locale e modello globale. La nobilitazione della diversità, tipica dei nostri anni, si presenta innovativa nonostante la cucina internazionale abbia radici antiche. Tuttavia, le differenze non sono state del tutto eliminate rispondendo così alle esigenze dei diversi paesi. Un sorta di “geografia culinaria” che permette di produrre il cioccolato meno zuccherato per la Francia, adatto alle loro necessità. Globale e locale devono sposarsi, dando vita a quello che i sociologici definiscono <<glo-cale>>.
Nel corso del tempo, anche la cucina napoletana ha subìto numerose contaminazioni che hanno dato vita a parecchie rielaborazioni. La nascita dei piatti gourmet o della nouvelle cusine ha minacciato la tradizione che, però, ha saputo difendersi piuttosto bene dando luogo ad una sorta di tendenza che riprende i “vecchi” ingredienti: le farine scure, i cereali, i prodotti dell’orto e le ricette della nonna. Così, anche i famosi “mangiatori di foglie” – ossia i napoletani chiamati così per il grande consumo di verdure – hanno rispolverato i piatti tipici attirando turisti e non con la popolare pasta e patate, con gli ziti alla genovese o con la classica ed intramontabile pasta allo scapariello.
Sicuramente ne avete sentito parlare! È un piatto a base di pomodoro, formaggio e basilico che prende il nome dai calzolai che abitavano Napoli, chiamati appunto “scarpari” in gergo partenopeo. Questi artigiani ricevevano come ricompensa del manufatto una pietanza che veniva loro preparata con quello che si aveva in dispensa. Chiaramente la pasta allo scarpariello vede anch’essa, oggi, molteplici riedizioni, come la variante con i pomodorini gialli. Ma, da buona tradizionalista vi lascio la ricetta originale. Sono sicura che avete tutti gli ingredienti in casa per prepararla!
Tagliate i pomodorini e fateli cuocere con poco olio evo, uno spicchio d’aglio e del peperoncino privato dei semini così da ottenere solo il profumo e non il piccante. Cuocete la pasta in abbondante acqua calda e quando è al dente aggiungetela al sugo; unite il formaggio grattugiato – pecorino e parmigiano in parti uguali – e aggiustate di sale. Mantecate con tanto basilico e portate a tavola caldo. Da leccarsi i baffi!
Valentina Fruttauro