Quando le parole e le immagini hanno la forza di suscitare emozioni, richiamando altre immagini, la riscrittura di un archetipo funziona, e, se è convincente, lascia il segno.
La storia è forte e difficile. Si narra un ritorno ma è questo piuttosto il pretesto per raccontare una partenza. Lazzaro è costretto a lasciare la sua terra e restarvi lontano per circa trent’anni.“Eravamo due ragazzini impauriti, ognuno a suo modo ferito da una frattura che sarebbe rimasta per sempre insanabile, e impegnati a salvaguardare la propria integrità mentale. In quei giorni di viaggio parlammo di tante altre cose, facemmo progetti come se non ci fosse franato il mondo addosso, e riuscimmo persino a ridere e scherzare sulla pazzia che avevamo compiuto e che ancora non sapevamo quanto ci sarebbe costata.”
Nessun ritorno può risarcire una ferita così, ma Lazzaro non è alla ricerca di una guarigione personale. Non è la sua vita quella che vuole ricucire.Il destino ha continuato a tramare, a ferire, a strappare, a portare via. Se ne vanno l’amico, l’amore. Ma c’è una forza “metafisica”, la capacità di andare oltre il tangibile in cui sta racchiuso il senso di una catarsi collettiva. Lazzaro non risorgerà da solo. Non è quello che vuole. È tornato per risarcire un’altra vita, e la forza morale del protagonista è in questo suo voler dare ciò che non gli è stato richiesto.
La salvezza è affidata all’amicizia, all’amore. “ormai si sono resi conto entrambi di essere diventati vicendevolmente importanti ed hanno accantonato paure e remore regalando all’altro un’anima uguale, purificata e redenta dalle fiamme del proprio inferno personale. Hanno sofferto, tanto, e ora sono pronti a prendersi la rivincita.”
C’è dunque un contrasto cielo-terra, bene-male, violenza-amore, che alimenta questa bella storia di Letizia Vicidomini. Come nel testo evangelico , il nome Lazzaro sa di resurrezione. La fuga dalla miniera per guardare il cielo, può rappresentare il passaggio dal buio alla luce, dalla morte alla vita.Dietro l’apparente semplicità si nasconde quindi una fitta trama simbolica (il pane, il vino, la vite e il tralcio) in cui il riferimento alla sfera sacrale risulta al tempo stesso estrinseco e intrinseco.
È una scrittura ricca di echi quella di Letizia Vicidomini. Nell’incipit del romanzo ciascun lettore accorto potrà riconoscere le immagini di un viaggio di ritorno in treno che sembrano riemergere dal Vittorini di Conversazione in Sicilia. E la terra che si racconta è una terra, quella pugliese, che acquista lo stesso valore mitico – simbolico.
La memoria è una memoria sensoriale.
“A Lazzaro vengono le lacrime nel risentire in bocca il sapore
della sua infanzia negata, che attraverso quella breccia si ripresenta
a graffiargli l’anima. Le ricaccia indietro perché non è tempo di pianto
ma di sorrisi e di coraggio, tanto coraggio.
È tutto difficile, recuperare il rapporto con le persone, col luogo, con la casa della propria infanzia.
«Questa è la mia casa…»
«Fa venir voglia di entrarci».
«ora è anche la tua, per tutto il tempo che vorrai… anche se c’è sempre
quella di mamma che ti aspetta».
«Non ora, è troppo presto…» Lazzaro svia volutamente il discorso
da quel territorio infido che è il rimpianto…”
Si assaporano atmosfere verghiane, che rimandano alla casa del Nespolo riconquistata ma non per questo garante dell’integrazione di tutti i membri della famiglia Malavoglia. Se per Lazzaro che torna è “troppo presto”, sarà troppo tardi per Ntoni destinato a un viaggio incerto verso il mondo moderno.Suggestiva la tecnica narrativa basata sull’alternanza di due voci narranti che sdoppiano la prospettiva. La voce in prima è una sorta di controcanto, un commento all’azione che non diventa distanza ma tentativo di comprensione.Un metabolismo emotivo carico di passione e di verità.
Letizia Vicidomini, Il segreto di Lazzaro, 2012, 144 p., euro 9,90, Cento Autori.
Vincenza Alfano